Pirati e anarchici, i libertari del St. Pauli

11/01/2013 Comunicazioni di servizio |  Autore: Carlo Ghio

Il nostro amico Giorgio Genetelli, dal Canton Ticino, addetto stampa dell’AC Bellinzona, ci segnala un suo articolo scritto sul sito ufficiale della sua squadra qualche mese fa, che riproponiamo anche sulle nostre pagine in vista dell’amichevole che si svolgerà nei prossimi giorni ad Antalya, in Turchia, proprio tra il St.Pauli e l’AC Bellinzona.

Donne, osterie che guardano il mare, risse tra bande e un bollino rosso grande come una casa su tutti i depliant turistici. Il Covo dei Pirati esiste ancora e si trova a Sankt Pauli, il quartiere di Amburgo dove i Beatles cominciarono a farsi conoscere al mondo, altro che Opéra o Greenvich Village. Inospitale fino al 17esimo secolo, quando affluirono i cordai, artigiani esperti nella costruzione delle reti da pesca, in men che non si dica Sankt Pauli, dal nome della chiesa che la città di Amburgo vi fece costruire, divenne un brulicare di navi, marinai, puttane e tutta una serie di effetti collaterali poco raccomandabili.

Un quadro introduttivo per spiegare l’humus nel quale nacque nel 1910 il Football Club St. Pauli. Fino alla metà degli anni Ottanta si barcamenò senza troppa gloria sportiva e con un seguito ridotto, ma poi arrivò la svolta con la decisione di costruire lo stadio proprio nella Reeperbahn, il cuore del quartiere. Da società tradizionale, il club divenne una specie di icona per disadattati, emarginati, anarchici e altra varia, bizzarra e non addomesticabile umanità. Venne adottato come stemma il Jolly Roger, la bandiera dei pirati, e fu bandita la presenza alle partite ai tifosi di estrema destra. Dalle poche migliaia di presenze si passò di colpo alle ventimila. Tutti con magliette e bandiere antirazziste e antifasciste, a cantare sulle note di Hell’s bells mentre la squadra entra in campo.

Controcorrente in tutto, il St. Pauli non ha mai fatto drammi per gli scarsi risultati sportivi (solo tre promozioni in Bundesliga, alla fine della stagione 2010/2011 è tornato in Zweite), tenendo invece fede al suo spirito: niente sponsor che vogliono lucrare ai danni dei più deboli, niente arabi, niente padroni, niente di niente. Autogestione, in pratica. Sono i tifosi a dettare la linea al presidente Stefan Orth, e ad avallare gli acquisti. Sono stati i tifosi, anticipando l’idea dell’Ambrì, a salvare il club dalla bancarotta, qualche anno addietro, stampando 140mila magliette col teschio e le ossa incrociate, vendute in sei settimane.

Sulle tribune del Millerntor-Stadion si riversa la varia umanità del quartiere e tutti quelli che si sentono dalla parte “diversa” del calcio milionario. Il St. Pauli è stato il primo club a giocare contro la nazionale di Cuba per solidarietà, organizzando anche una specie di Mondiale per le Nazioni inesistenti e un torneo per rifugiati politici. Si calcola che i simpatizzanti di questo club nel mondo sfiorino i venti milioni, e questo nonostante un marketing ridotto all’osso, senza punti vendita se non allo stadio, in internet e, da qualche settimana, a Milano (chissà cosa dice la Madunina a vedere creste punk, teschi e amuleti vari).

Inutile dire che la rivalità con il ricco e potente Amburgo è piuttosto sentita. Nel febbraio del 2011, il St. Pauli è riuscito a espugnare la Nordbank Arena, battendo i fratelli ricchi, esaurendo il compito in Bundesliga e infilando sette sconfitte consecutive culminate nell’1-8 subìto in casa dal Bayern. Ultimo posto e retrocessione, ma con il bottino della rapina alla Nordbank ben stretto in tasca. Da dividere in parti uguali, sulle note di Hell’s bells.

gene

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